Serena Brancale: «È bello cantare nella propria lingua. Mi piace l’eleganza di Daniela Pes»
La compositrice e polistrumentista mescola groove e dialetto barese. Il 2 agosto sul palco di Sant’Antioco
Una delle voci migliori del panorama musicale italiano, polistrumentista, compositrice. Per anni icona dei salotti soul, r&b e jazz – in mezzo un festival di Sanremo con “Galleggiare” –, da un po’ di tempo è voce e volto della musica che mischia alto e basso. Groove e dialetto barese. La sua “Baccalà” è un brano diventato virale in questi mesi e che l’ha rilanciata agli occhi, e alle orecchie, di tutti. Proprio tutti. Serena Brancale fa tappa questa sera, 2 agosto, all’arena Feniia di Sant’Antioco per Festartes.
Serena, che estate sta vivendo?
«La più importante della mia vita. Piena di lavoro e stancante, questo sì, ma vorrei fosse sempre così. Alla fine dei conti studi proprio per arrivare a questo, per un’estate piena di concerti».
Il boom con “Baccalà”, però si stanno confermando successi anche gli altri due singoli, “La zia” e “Stu cafè”
«Non me l’aspettavo. Era da circa un anno che giocavo, che facevo degli esperimenti, armonizzavo parolacce... un’idea per sperimentare c’era già da tempo, con “Baccalà” è scoppiata del tutto».
Quindi la genesi di questi brani è del tutto sperimentale e istintiva?
«Sì, ma non è una novità. Da dieci anni porto avanti questo tipo di esperimento, mi viene in mente anche “Sta uagnedd” , avevo 22 anni. Poi l’album “Je so accussì”(uscito a marzo 2022, ndr). Lì cercavo di mixare l’italiano col dialetto. Sono tanti gli esercizi di stile dove gioco con lo swing».
Le lingue del sud stanno rivivendo un momento di grazia in musica: il napoletano con Geolier, il barese con lei.
«Una riscoperta delle lingue che è una riscoperta delle tradizione. A Sanremo è stato bello ascoltare un brano in napoletano, è stata un’apertura. Non riesco a capire a cosa sia dovuto, a parte Pino Daniele, ma ora sento proprio la voglia che abbiamo tutti di cantare col proprio dialetto. “Baccalà” è stata aiutata dai social, un modo diverso e moderno di veicolare la musica, e sono contenta che possa aiutare i ragazzi ad avvicinarsi. Il dialetto è ciò che hai sempre sentito in casa, da tua nonna, dalla famiglia, ed è un qualcosa che a me interessa molto».
Continuo l’elenco: il sardo con Mahmood e Daniela Pes.
«Daniela Pes mi piace veramente tanto. Una cantante che sta portando a modo suo il sardo (nella variante del gallurese, ndr), questi sono esperimenti colti e che vanno sostenuti. Ha un modo elegante per raccontare di sé e della propria tradizione».
Possiamo dire che il suo modo di fare musica, mischiare il popolare con un percorso jazz e soul, è l’esempio dell’abbattimento delle categorie?
«Purtroppo le categorie le riscopro nella musica. Nella moda c’è tanta apertura verso l’uso di stili diversi. Pensa lo stesso Mahmood, ha giocato con gli stili e portato l’idea di un nuovo omosessuale tra l’eleganza e lo scabroso. Mi piace. Invece nella musica una che fa jazz non fa musica popolare. Dobbiamo essere più americani in questo senso».
È un discorso che la tocca particolarmente...
«Sì, perché mi ritrovo a parlarne per l’ennesima volta. Io credo all’identità plurale, per esempio sono convinta che la bravura di Annalisa sia data anche dal suo essere una fisica. È giusto unire i puntini e non pensare che si è fatti per una cosa sola. Ci convincono che se sai fare una cosa devi farla pura, e invece crescendo ho capito che non è così».
E quindi lei a che punto del suo percorso artistico si sente?
«Continuerò a giocare col dialetto, con una lingua ritmica facile, con groove, più dell’italiano. Ci sono brani nuovi che usciranno. Voglio vedere i bambini ballare, la gente che non mi dica “bella questa canzone ma non la capisco”. Per anni mi sono complicata con accordi e parole difficili».