Enrico Beruschi: «Fu Berlusconi a volermi al “Drive in”. La tv? Nessun rimpianto: va bene così»
L’attore milanese si racconta: «Ero un ragioniere, una sera deluso dal lavoro mi fermai al Derby e pochi giorni dopo ero sul palco»
Le sue facce, i suoi tormentoni, le sue gag con Margherita Fumero, inseparabile moglie sulla scena, appartengono a un’epoca televisiva ormai un po’ lontana, ma indimenticabile per chi l’ha vissuta. Ai più giovani forse il nome di Enrico Beruschi non dice tantissimo, ma chi giovane lo era quarant’anni fa eccome se ricorda il Ragioniere, anche perché l’attore milanese ha legato il suo nome a due show che più di tutti hanno cambiato il modo di fare tv, “Non stop” e “Drive in”.
Beruschi, ragioniere in televisione ma anche nella vita...
«Ragioniere del Cattaneo di Milano, che era il numero uno. E negli anni ’60 cosa sognavano le mamme per un figlio che diventava ragioniere? La banca. E io sono finito in banca».
Ma quando ha capito che faceva ridere gli altri?
«Proprio l’altro giorno a messa ad Arese - un tempo famoso per l’Alfa Romeo oggi per il centro commerciale più grande d’Europa: mah-, una amica di infanzia mi fa: “Ti ho visto a Striscia, tu sei sempre stato quello che ci tirava su di morale”. In effetti, avevo 10 in condotta, ma qualcosa di allegro la mettevo su sempre. Se quando hai 13-14 anni e sei piccolo, brutto e povero qualcosa di tuo la devi fare se vuoi farti notare...».
Dalla banca al cabaret però passeranno degli anni...
«Dopo la banca ho fatto diversi altri lavori. Ho lavorato in una ditta di stoffe con in mezzo il militare. Ho venduto porta a porta, ma poi mi sono accorto che ero più bravo come amministrativo che come venditore. Sono entrato in Galbusera e sono diventato un bravo capoufficio. Me ne sono andato da vicedirettore».
Quando entra il cabaret nella sua vita?
«Eravamo nel 1972. Avevo meccanizzato l’azienda e non mi fu dato un aumento che pensavo di meritare. Ero un po’ deluso. Rientrando dalla casa della mia morosa, che oggi è mia moglie, ho preso via Monte Rosa e mi sono fermato al Derby. Io ero un habitué come cliente. Ero di casa. Cochi e Renato erano stati i miei compagni di scuola...».
Tutti in classe assieme?
«Con Renato alle medie, con Cochi due anni di ragioneria».
Da cliente diventerà uno dei mattatori del mitico cabaret.
«Walter Valdi era la colonna del Derby. Una sera mi vede e mi fa: “Si dice che sei capace di fare ridere, domani provi”. Ero terrorizzato dietro quel sipario rosso. Era la prima volta che parlavo in pubblico, lui mi presenta e debutto con tre barzellette. Eravamo a luglio. Poi da settembre Boris Makaresco mi fa dire un paio di battute nel suo spettacolo. E dal 5 novembre il mio nome è finito nel cartellone».
Dal Derby alla tv con “Non stop”, lo show che ha lanciato anche Troisi, Verdone e Nuti.
«Quella trasmissione fu un’idea di Pippo Baudo che convinse Bruno Voglino a mettere insieme tutti questi nuovi comici. Baudo però venne chiamato a fare la lotteria e si portò via Beppe Grillo e il regista. Rimanemmo lì da soli. La fortuna fu che ci affidarono a Enzo Trapani, che aveva sbagliato un paio di programmi: gli diedero noi quasi come un castigo. Il successo di “Non stop” è stato tutto merito suo. Pur senza un conduttore riuscì nell’impresa, cambiando per sempre il modo di fare tv».
Per lei si aprono anche le porte di Sanremo: come finì in gara al festival del 1979?
«Fu la follia di un discografico. Prima di “Non stop” feci uno show per bambini che nessuno si ricorda e cantavo la canzoncina “Salvatore l’inventore”. Nacque l’idea di mandarmi a Sanremo e mi confezionarono un’altra canzoncina, “Sarà un fiore”, dal doppio senso garbato. Ero secondo, finii quinto. Credo mi abbiano spinto un po’ giù».
Il Drive in è stato il palcoscenico più importante. Come arriva alla corte di Antonio Ricci?
«Mi aveva voluto proprio Berlusconi. Ci eravamo incontrati al concerto di Liza Minnelli a Milano. “Enrico – mi sentii chiamare –. Cosa aspetti a venire da me? Adesso ho una tv”. Mi mise sotto contratto in esclusiva, prendevo più del doppio della Rai. Dodici puntate e 8 ospitate, ma per mesi non mi facevano fare niente: io da buon ragioniere rifiutavo di farmi pagare. Un giorno incontrai Ricci e Giancarlo Nicotra e ci chiudemmo in un ufficio a Milano 2. Ci mettemmo a pensare a una trasmissione nuova e venne fuori “Drive in”. Ma all’inizio non lo volevano mandare in onda, era troppo strano. Fu Berlusconi a dare il via libera...».
Come si convinse?
«Gli portarono la cassetta e disse: “Voi andate a mangiare”. Lui radunò segretarie, donne delle pulizie, guardie e trasmise la cassetta. La reazione fu ottima e volle mandarla in onda».
Come nasce la coppia con Margherita Fumero?
«L’ho conosciuta nel 1979 nella mia prima commedia, “L’angelo azzurro”. Faceva la mia fidanzata. In una commedia successiva faceva ancora la mia fidanzata con cui alla fine mi sposavo. Quando mettemmo su il “Drive in” volli nel cast lei ed Ezio Greggio: erano belli, bravi e utili a un programma nuovo».
Il rapporto con Gianfranco D’Angelo?
«Il Drive in doveva essere il mio spettacolo, ma Berlusconi aveva appena preso Italia 1. Viene Nicotra e m i fa: “Tu sei di Milano e si sente, andiamo in onda in tutta Italia, serve anche qualcun altro”. Ci rimasi un po’ così, ma quando mi fece il nome di Gian franco ne fui felicissimo».
Greggio e D’Angelo presero casa a Puntaldia.
«Anche io presi un tugurio ma sopra Olbia».
A un certo punto lascia la tv: scelta sua o di altri?
«Volevo fare teatro, non ero più sotto contratto. Mi chiama Berlusconi: “Cos’è questa cosa del teatro, devi fare il circo”. E così ho accettato “Sabato al circo”, che poi è passato a Rete 4 ed è andato male. A quel punto mi hanno chiamato dal Carcano di Milano e da allora ho fatto tanto teatro. Anche ora voglio portare in giro un nuovo spettacolo, “80 anni in 80 minuti”: è il racconto della mia vita e pare che funzioni»
I suoi rimpianti?
«Rimpianti non bisogna averne, quando le cose sono successe sono successe. Qualche coltellata me la sono presa anche io, ma porto bene le cicatrici. Se non avessi lasciato Drive in? Chi se ne frega, quello che è stato è stato, sono sereno e ho una nipote meravigliosa, Susanna. C’è un proverbio milanese che dice “i' ma e i' sé è patrimonio de' mi' hoglioni”. Non c’è bisogno che traduca, vero?».