La Nuova Sardegna

Sassari

La storia

Un gioiello del passato nascosto fra lecci e roverelle a due passi dalla città

di Davide Pinna

	L'ingresso del cosiddetto Ipogeo sassarese
L'ingresso del cosiddetto Ipogeo sassarese

L’ipogeo sassarese racconta il passato agricolo e lo stretto legame della città con le sue campagne

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Sassari A due passi dal traffico cittadino, ci si può ritrovare immersi dentro un bosco incantato di lecci e roverelle. Che custodisce al suo interno, a poche decine di metri dai binari della ferrovia Sassari-Tempio-Palau, un antico gioiello di architettura rurale.

Sul web è conosciuto come “Ipogeo sassarese”, ma il nome non rende giustizia a questo grande ambiente scavato nel calcare fra Monte Furru e la valle del Rio Gabbaru. Il calcare macchiato dal muschio e dai licheni ammanta di un’aura fiabesca la grotta artificiale, una tangibile testimonianza di un passato non troppo lontano, che vedeva Sassari impegnata in un dialogo serrato con le sue campagne.

Ci si può arrivare percorrendo un brevissimo tratto del sentiero 311, fermando l’auto davanti alla chiesa di San Francesco del Monte, a Monte Furru. Un edificio singolare, datato fra il Cinquecento e il Seicento, con la sua particolare finestra serliana nella parte superiore della facciata, ma anche con i due lucernari accanto al porta di ingresso che ricordano un volto umano.

Qui, nei giorni attorno al 4 ottobre, un comitato organizza la festa dedicata al Santo di Assisi, recuperando una tradizione antica e, per lunghi anni, perduta. Dalla chiesetta, si scende per via dell’Alloro e la si percorre per qualche centinaio di metri, fino a quando non si svolta verso destra e si comincia a scendere verso la valle del Rio Gabbaru.

Qui, lo spazio urbano lascia il posto a un bosco di lecci. Ad un tratto, quando mancano pochi metri ai binari della ferrovia dismessa verso Tempio, bisogna lasciare il sentiero e addentrarsi nel bosco. Ci si trova così davanti all’ingresso dell’ipogeo.

Una sorta di portale su un passato difficile da inquadrare, se non si hanno le giuste conoscenze. Cosa sia, lo spiega lo studioso e storico dell’arte Alessandro Ponzeletti: «Molto probabilmente – spiega – si tratta dell’allargamento artificiale di una cavità naturale. Poi rimane l’interrogativo: hanno creato quel volume partendo da una Domus de Janas o no? Per il momento, dobbiamo lasciare il punto di domanda, perché non si intravvedono le forme di una struttura prenuragica precedente».

In realtà, un riferimento cronologico c’è e, spiega Ponzelletti, è anche abbastanza affidabile: «Si tratta di una data graffita sul pilastro all’ingresso dell’ipogeo: 1672 o 1679. Si tratta di una data credibile, perché questo tipo di strutture era già in uso proprio in quegli anni». 

Ma a cosa serviva, quello spazio? «Ai lati ci sono due sorte di contenitori, anch’essi scavati nella roccia. Probabilmente, in passato, erano associati a un macchinario in legno impiegato per pigiare dei frutti. Difficile dire però se si trattasse di olive oppure uva».

Probabilmente, quello che oggi appare come un bosco incontaminato, fino a qualche secolo fa era infatti una vigna o un uliveto: «Per scoprirlo, bisognerebbe verificare negli archivi a quale famiglia appartenesse quella campagna. Da lì si potrebbero ricostruire tanti elementi. Quasi certamente, si trattava di una famiglia con importanti mezzi economici a disposizione». L’impresa di scavo dell’ipogeo, infatti, non doveva essere alla portata di tutti.

Quel che è certo è che di luoghi simili, a Sassari e nei dintorni, ce n’erano altri: «A Scala di Giocca, ad esempio, ma non solo. Nelle vecchie foto della fontana di Rosello, guardando verso via Bogino, tutto il costone era punteggiato da grotte artificiali, allargate per ricavarne magazzini e stalle» aggiunge Ponzeletti.

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