Antonio Segni, un europeista al Quirinale
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Il 15 febbraio 1959 avviene il giuramento del secondo governo Segni, dopo il primo durato dal 1955 al 1957. (...) Il leader Dc mostra ancora una volta un’attenzione particolare verso il Mezzogiorno e si impegna a presentare al Parlamento una legge anti-monopolio. In tema di politica estera invece sostiene fermamente la comunione di intenti con gli Usa e la fedeltà all’Alleanza atlantica, e critica con forza l’operato del Pci e del Psi, anche se poi il Consiglio dei ministri approva il contestatissimo viaggio del presidente della Repubblica Gronchi a Mosca. L’intento è quello di utilizzare la politica estera come sponda per la politica interna, ma di fatto i risultati non sono quelli desiderati e anche la visita ufficiale negli Stati Uniti compiuta da Segni nel settembre del 1959 lo lascia parzialmente insoddisfatto e preoccupato sull’ipotesi che possa scatenarsi una guerra. Ai pericoli esterni il presidente del Consiglio aggiunge le preoccupazioni per la forza del Pci. In quell’anno di governo fra il 1959 e il 1960, l’economia italiana va verso una crescita, ma con l’ascesa di Aldo Moro ai vertici della Dc, il secondo governo Segni cade.
CON TAMBRONI. Tramontata l’ipotesi di guidare un terzo governo, Segni si ritrova ministro degli Esteri nell’esecutivo guidato da Fernando Tambroni, che è sostanzialmente una copia del precedente guidato dal sassarese, e in quello successivo, il terzo con a capo Fanfani. Stavolta tuttavia il percorso non guarda al presente, ma a un futuro prossimo al Quirinale: a farsene portavoce con lo stesso Segni è l’amico Emilio Colombo, che invita il politico sardo a entrare nel governo Fanfani come ministro degli Esteri per la possibilità sia di mantenere i contatti con le diplomazie, i governi e i capi di Stato, sia di evitare un impegno diretto negli affari interni.
INTEGRAZIONE EUROPEA. Il suo impegno al ministero è finalizzato al conseguimento di due obiettivi: da una parte accelerare il processo di integrazione europea e dall’altra consolidare le alleanze con le potenze occidentali, il che gli attira l’accusa di immobilismo. In realtà l’Italia di Segni in questi anni cerca di legarsi più strettamente alla Germania federale e alla Gran Bretagna, con l’obiettivo di fare del Paese un partner europeo al pari degli altri e nel contempo di ridimensionare le spinte egemoniche della Francia.
NOVE SCRUTINI. L’esperienza al ministero di Segni gli permette di mostrarsi come il giusto candidato per la corsa al Quirinale: fedele ai principi della Democrazia cristiana, anticomunista garantito, rappresentante moderato del centrodestra della Dc e politico adatto a bilanciare lo scivolamento a sinistra e a controbilanciare il potere di Moro e Fanfani. L’elezione avviene la sera del 6 maggio 1962, dopo nove scrutini, ed è da lì che inizia l’avventura politica che poi si lega più di altre al nome del sassarese: nel suo messaggio di insediamento, fra l’altro, Segni prende le distanze chiaramente dai suoi predecessori Luigi Einaudi e Giovanni Gronchi. In un volumetto pubblicato dalle Edizioni di Comunità a pochi mesi di distanza dall’elezione si fa riferimento «all’impostazione equilibrata che il Presidente della Repubblica mostra di voler dare all’esercizio dei suoi poteri; c’è proclamata chiaramente la volontà di non interferenza nella formazione del concreto e specifico indirizzo politico che spetta al Governo formulare, proiettando così le due direttive su un più vasto orizzonte politico, onde attribuirvi il contenuto di un orientamento di fondo e ideale».
EQUILIBRIO. «Ciò non significa però affermazione di un neutralismo o di un’astensione presidenziale nell’azionare i poteri conferiti dalla Costituzione; significa, invece, equilibrio e ponderatezza in tale azionamento, rinunzia a ogni forma di superpresidenza del Consiglio, indirizzo della propria azione su un più generale e finalistico campo di intervento. Nessuno oserà a pochi mesi dall’inizio del mandato del nuovo Presidente della Repubblica formulare giudizi definitivi; ma, se è dato rilevare certi elementi di giudizio dal primo atto compiuto il giorno dopo la lettura del messaggio dal presidente Segni, questi elementi appaiono deporre favorevolmente a una concezione del mandato presidenziale più corretta e più conforme allo spirito della Costituzione di quella vigente durante il precedente settennato».
ELEZIONI 1963. Del resto a sostegno della necessità di un cambio di passo rispetto al passato arrivano anche i risultati delle elezioni politiche nell’aprile del 1963, che vedono la Democrazia cristiana perdere quattro punti percentuali rispetto al 1958. Da parte sua, Segni cerca di tenere fede a quanto dichiarato nel discorso di insediamento: pubblicamente si mostra equilibrato e imparziale, anche se le sue idee risultano ben chiare. La sua è una presidenza conservatrice e rigorosa, frenante rispetto all’avanzata delle forze di centrosinistra, attenta all’attuazione della Costituzione, ma anche propositiva soprattutto per quanto riguarda il funzionamento della macchina istituzionale.
SCONTRO CON NENNI. È Segni infatti a sollevare i problemi relativi al metodo di rinnovo dei giudici della Corte costituzionale con l’intento di avviare un processo di perfezionamento dell’ordinamento statale, a chiedere l’introduzione nella Costituzione del principio della non immediata rieleggibilità del capo dello Stato e a istituire l’ufficio del vicesegretario generale. Nei due anni e tre mesi del suo mandato, che si conclude nel 1964, lo statista si trova a scontrarsi con Moro, Saragat e Nenni e via via a comprendere, suo malgrado, che proprio il centrosinistra di Moro e Nenni è ormai inevitabile. Si preoccupa dell’avanzata del Partito comunista, ma molto di più del maggiore intervento dello Stato nell’economia.
FASE CONVULSA. Al di là della fase convulsa per il Paese e per il partito che il politico sardo si trova ad affrontare nel suo ultimo incarico, preme evidenziare come la scelta di “non interferenza” espressa fin dall’inizio del mandato rappresenti un modo di esercizio che, nei confronti del governo e dei contrasti fra i partiti, dilata o restringe l’ampiezza della sua azione a seconda che questi contrasti siano o no in grado di assicurare tranquille e normali soluzioni politiche. Un atto di fiducia insomma e di responsabilizzazione verso un Paese che in quegli anni sta crescendo da parte di quello che Calamandrei, in una lettera inviata a Segni nel 1960, definisce «un signore in questo nostro mondo politico meschino e grossolano ove i più, pur di difendere una poltrona, sono pronti a basse umiliazioni».