Gli italiani? Sono nati sulle pagine di “Cuore”
COSTANTINO COSSU
Il nuovo libro di Marcello Fois: Edmondo De Amicis come autore di una grammatica attraverso cui poterci rappresentare come popolo
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Formulare una grammatica essenziale, attraverso cui poterci rappresentare e raccontare come popolo unito perché solidale. Una grammatica fondata su istruzione, empatia e amorevolezza, che in tempi di odio è importante cercare nuovamente di imparare. A questo, secondo Marcello Fois, serve rileggere Edmondo De Amicis e il libro Cuore. Tesi che lo scrittore barbaricino sviluppa nel suo nuovo libro, il saggio “L’invenzione degli italiani. Dove ci porta Cuore” (104 pagine, 12 euro), in uscita oggi per Einaudi. Ne parliamo con Fois in questa intervista.
De Amicis contro noi stessi ci ha resi brava gente. Quali sono gli assi portanti questa operazione? E in che senso si può dire che, attraverso di essa, gli italiani sono stati inventati?
«Messa così sembrerebbe che ci sia stato un dolo specifico che invece non c’è stato. De Amicis si è semplicemente posto il problema di trovare un minimo comun denominatore tra popoli e culture difformi che la Storia ha assommato sotto la sigla di Italia. Ma gli italiani e il senso di patria era una suggestione già trasmessa da Dante Alighieri. Le culture nazionali sono il frutto di una convenzione. Perciò tutti i popoli sono stati “inventati”, l’Italia e gli italiani sono solo arrivati per ultimi e per questo sono piuttosto in progress per quanto riguarda il senso di popolo. Cuore è un libro di fantascienza in cui un fenomeno in prospettiva viene descritto come avvenuto.
Tu ricordi, nel libro, il giudizio di Luigi Baldacci, che considerava De Amicis «espressione di un Ottocento Umbertino, piccolo e filisteo, pieno di buone intenzioni e, tuttavia, impostato su cattive basi». Che cosa sfugge, secondo te, a Baldacci, di De Amicis e del suo “Cuore”?
«Gli sfugge che Cuore non è un saggio di storia ma un esercizio di pura finzione quindi un prodotto letterario. Ma anche che Cuore non è il resoconto di una stagione, ma un’ipotesi socio culturale e storico antropologica. Si pretende la verità dalla letteratura, ma la verità è l’ultimo degli obiettivi di qualunque prodotto letterario. L’idea che un testo debba rappresentare la realtà è il sintomo del decadimento del senso stesso della letteratura a mero intrattenimento, e di conseguenza a pura conferma di quanto già si conosce. Il risultato è produrre confusione tra il contemporaneo, che rappresenta un oggi problematico, e l’attuale che rappresenta un oggi consolatorio».
Eppure, tu lo scrivi, De Amicis è un’eccezione, «passata e presente». “Cuore” è l’altra faccia, quella buona, di una realtà che ha anche un altro lato, opposto e decisamente repellente.
«E’ un’ipotesi speculare, un esperimento in vitro, che non ha il dovere di rappresentare la realtà ma un’ipotesi di realtà. Neanche le vicende di Anna Karenina per quanto ci paiano vere lo sono. De Amicis è un intellettuale del suo tempo e uno scrittore straordinariamente dotato. E’ tradotto in tutto il mondo, in molti paesi la portata del suo esperimento è considerata universale. Ma il dato fondamentale del “sistema Cuore” è reagire con “bontà” alla evidenza di vivere in un contesto tutt’altro che buono. Come la totalità degli intellettuali che oggi definiremmo progressisti De Amicis si rendeva conto che questa nazione era un coacervo di razzisti, sessisti, forcaioli, reazionari. Direi che non aveva torto».
Nel progetto (utopico tu lo definisci) di De Amicis un ruolo centrale occupa la scuola. Tu scrivi: «Se la scuola corrisponde alla realtà, se non è l’espressione di un’utopia sociale, politica, culturale, allora non è scuola, non è scholé, nel rispetto dell’etimo: altro, altrove, vacanza, interruzione, tempo dedicato alla propria formazione, otium». Tutto il contrario, direi, di ciò che da almeno vent’anni governi di destra e di centrosinistra senza differenze stanno tentando di far diventare la scuola: un’agenzia formativa funzionale alle esigenze dell’economia ed essa stessa organizzata come un’azienda (i vecchi presidi e direttori diventano dirigenti). Non ti sembra?
«Assolutamente sì. La scuola pubblica rappresentava proprio quell’ipotesi di parità che nella società era negata. Il diritto allo studio ha rappresentato un territorio franco in cui si potessero allevare cittadini, quindi fruitori di un patrimonio culturale, e di valori, comune e generalizzato. La scuola è un luogo di formazione non di intrattenimento, né tantomeno un’agenzia che deve soddisfare necessità aziendali. Esattamente come un buon libro. Proprio come in Cuore».
Scrivi anche, nel libro, della scuola tua, da bambino in Barbagia. Com’era quella scuola? Cosa ti ha insegnato il maestro Francesco Olla?
«Che esiste una notevole differenza tra l’autorevolezza e l’autorità; che in una classe si contava in rapporto alla propria volontà di contribuire e che concepire quella volontà, quella tensione, era l’unico insegnamento che durasse. Che appartenere a un luogo significava necessariamente conoscerne la storia. Perché quando si sa da dove si parte si può andare dappertutto. Perché quando si ha coscienza di sé, gli altri non ci appaiono più come nemici».
Un altro cardine dell’operazione utopica di De Amicis è la famiglia. Ma che cosa ce ne possiamo fare della famiglia istituzione chiusa, come la pensava De Amicis, oggi che la famiglia viene vista come uno spazio aperto di relazioni plurali? E lo stesso discorso non vale anche per la scuola e magari anche per il concetto di patria?
«In Cuore sussistono le stesse famiglie, con le stesse ambiguità, che appaiono, per esempio, in Madame Bovary o Orgoglio e pregiudizio. Eppure nessuno si sognerebbe di dire che Flaubert o Jane Austin pensavano a famiglie istituzioni chiuse. Come molti dimenticano che nell’Iliade Achille e Patroclo non sono solo compagni d’armi, ma coniugi, e quindi l’espressione di una relazione plurale. Il pregiudizio che circonda De Amicis è lo stesso che ha permesso lo scippo dei valori di solidarietà e coesione sociale, come obiettivi, dalla sinistra alla destra. E’ lo stesso che ha reso afasica e balbettante la nostra area progressista. Dunque la risposta è che non si possono formulare interpretazioni se non ci si libera dai pregiudizi».
In principio era Manzoni. Scrivi che “Cuore” inizia dove finisce “I promessi sposi”. In che modo De Amicis continua Manzoni?
«Perché afferra il testimone che Renzo Tramaglino gli tende pretendendo, alla fine del romanzo di cui è coprotagonisa, che tutti i suoi figli imparassero a leggere e scrivere. Un padre che vuole evitare ai propri figli la sua stessa umiliazione di non avere le parole o i concetti per spiegarsi. Una famiglia regolarissima anche quella di Manzoni. Un matrimonio avventuroso, ma poi undici figli».
Dopo aver finito di leggere il tuo libro, il testo che ho aperto subito dopo (ti confesso come antidoto a De Amicis) è stato “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani” di Leopardi. Nessuna utopia lì, pagine lucidissime che svelano un altro “cuore”, il cuore di tenebra del nostro carattere nazionale, che pulsava quando Leopardi scriveva e che ancora oggi pulsa vivissimo.
«E’ utile, anzi consigliabile, leggere entrambi. E’ utile leggere tutto. Non vedo contrapposizioni tra questi due testi, anzi una sostanziale compenetrazione. A leggere il lucidissimo Leopardi si capisce meglio la missione del distopico De Amicis».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
De Amicis contro noi stessi ci ha resi brava gente. Quali sono gli assi portanti questa operazione? E in che senso si può dire che, attraverso di essa, gli italiani sono stati inventati?
«Messa così sembrerebbe che ci sia stato un dolo specifico che invece non c’è stato. De Amicis si è semplicemente posto il problema di trovare un minimo comun denominatore tra popoli e culture difformi che la Storia ha assommato sotto la sigla di Italia. Ma gli italiani e il senso di patria era una suggestione già trasmessa da Dante Alighieri. Le culture nazionali sono il frutto di una convenzione. Perciò tutti i popoli sono stati “inventati”, l’Italia e gli italiani sono solo arrivati per ultimi e per questo sono piuttosto in progress per quanto riguarda il senso di popolo. Cuore è un libro di fantascienza in cui un fenomeno in prospettiva viene descritto come avvenuto.
Tu ricordi, nel libro, il giudizio di Luigi Baldacci, che considerava De Amicis «espressione di un Ottocento Umbertino, piccolo e filisteo, pieno di buone intenzioni e, tuttavia, impostato su cattive basi». Che cosa sfugge, secondo te, a Baldacci, di De Amicis e del suo “Cuore”?
«Gli sfugge che Cuore non è un saggio di storia ma un esercizio di pura finzione quindi un prodotto letterario. Ma anche che Cuore non è il resoconto di una stagione, ma un’ipotesi socio culturale e storico antropologica. Si pretende la verità dalla letteratura, ma la verità è l’ultimo degli obiettivi di qualunque prodotto letterario. L’idea che un testo debba rappresentare la realtà è il sintomo del decadimento del senso stesso della letteratura a mero intrattenimento, e di conseguenza a pura conferma di quanto già si conosce. Il risultato è produrre confusione tra il contemporaneo, che rappresenta un oggi problematico, e l’attuale che rappresenta un oggi consolatorio».
Eppure, tu lo scrivi, De Amicis è un’eccezione, «passata e presente». “Cuore” è l’altra faccia, quella buona, di una realtà che ha anche un altro lato, opposto e decisamente repellente.
«E’ un’ipotesi speculare, un esperimento in vitro, che non ha il dovere di rappresentare la realtà ma un’ipotesi di realtà. Neanche le vicende di Anna Karenina per quanto ci paiano vere lo sono. De Amicis è un intellettuale del suo tempo e uno scrittore straordinariamente dotato. E’ tradotto in tutto il mondo, in molti paesi la portata del suo esperimento è considerata universale. Ma il dato fondamentale del “sistema Cuore” è reagire con “bontà” alla evidenza di vivere in un contesto tutt’altro che buono. Come la totalità degli intellettuali che oggi definiremmo progressisti De Amicis si rendeva conto che questa nazione era un coacervo di razzisti, sessisti, forcaioli, reazionari. Direi che non aveva torto».
Nel progetto (utopico tu lo definisci) di De Amicis un ruolo centrale occupa la scuola. Tu scrivi: «Se la scuola corrisponde alla realtà, se non è l’espressione di un’utopia sociale, politica, culturale, allora non è scuola, non è scholé, nel rispetto dell’etimo: altro, altrove, vacanza, interruzione, tempo dedicato alla propria formazione, otium». Tutto il contrario, direi, di ciò che da almeno vent’anni governi di destra e di centrosinistra senza differenze stanno tentando di far diventare la scuola: un’agenzia formativa funzionale alle esigenze dell’economia ed essa stessa organizzata come un’azienda (i vecchi presidi e direttori diventano dirigenti). Non ti sembra?
«Assolutamente sì. La scuola pubblica rappresentava proprio quell’ipotesi di parità che nella società era negata. Il diritto allo studio ha rappresentato un territorio franco in cui si potessero allevare cittadini, quindi fruitori di un patrimonio culturale, e di valori, comune e generalizzato. La scuola è un luogo di formazione non di intrattenimento, né tantomeno un’agenzia che deve soddisfare necessità aziendali. Esattamente come un buon libro. Proprio come in Cuore».
Scrivi anche, nel libro, della scuola tua, da bambino in Barbagia. Com’era quella scuola? Cosa ti ha insegnato il maestro Francesco Olla?
«Che esiste una notevole differenza tra l’autorevolezza e l’autorità; che in una classe si contava in rapporto alla propria volontà di contribuire e che concepire quella volontà, quella tensione, era l’unico insegnamento che durasse. Che appartenere a un luogo significava necessariamente conoscerne la storia. Perché quando si sa da dove si parte si può andare dappertutto. Perché quando si ha coscienza di sé, gli altri non ci appaiono più come nemici».
Un altro cardine dell’operazione utopica di De Amicis è la famiglia. Ma che cosa ce ne possiamo fare della famiglia istituzione chiusa, come la pensava De Amicis, oggi che la famiglia viene vista come uno spazio aperto di relazioni plurali? E lo stesso discorso non vale anche per la scuola e magari anche per il concetto di patria?
«In Cuore sussistono le stesse famiglie, con le stesse ambiguità, che appaiono, per esempio, in Madame Bovary o Orgoglio e pregiudizio. Eppure nessuno si sognerebbe di dire che Flaubert o Jane Austin pensavano a famiglie istituzioni chiuse. Come molti dimenticano che nell’Iliade Achille e Patroclo non sono solo compagni d’armi, ma coniugi, e quindi l’espressione di una relazione plurale. Il pregiudizio che circonda De Amicis è lo stesso che ha permesso lo scippo dei valori di solidarietà e coesione sociale, come obiettivi, dalla sinistra alla destra. E’ lo stesso che ha reso afasica e balbettante la nostra area progressista. Dunque la risposta è che non si possono formulare interpretazioni se non ci si libera dai pregiudizi».
In principio era Manzoni. Scrivi che “Cuore” inizia dove finisce “I promessi sposi”. In che modo De Amicis continua Manzoni?
«Perché afferra il testimone che Renzo Tramaglino gli tende pretendendo, alla fine del romanzo di cui è coprotagonisa, che tutti i suoi figli imparassero a leggere e scrivere. Un padre che vuole evitare ai propri figli la sua stessa umiliazione di non avere le parole o i concetti per spiegarsi. Una famiglia regolarissima anche quella di Manzoni. Un matrimonio avventuroso, ma poi undici figli».
Dopo aver finito di leggere il tuo libro, il testo che ho aperto subito dopo (ti confesso come antidoto a De Amicis) è stato “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani” di Leopardi. Nessuna utopia lì, pagine lucidissime che svelano un altro “cuore”, il cuore di tenebra del nostro carattere nazionale, che pulsava quando Leopardi scriveva e che ancora oggi pulsa vivissimo.
«E’ utile, anzi consigliabile, leggere entrambi. E’ utile leggere tutto. Non vedo contrapposizioni tra questi due testi, anzi una sostanziale compenetrazione. A leggere il lucidissimo Leopardi si capisce meglio la missione del distopico De Amicis».
©RIPRODUZIONE RISERVATA