Arturo Brachetti: «Il teatro è come fare l’amore: o lo fai dal vivo o non ha senso»
Il mago indiscusso del trasformismo arriva con il suo one man show a Cagliari
Il titolo dello spettacolo è “Solo” ma in realtà sul palco ci saranno almeno 60 personaggi. Tutti messi in scena da lui, Arturo Brachetti, il maestro indiscusso del trasformismo, l’uomo dai mille volti che arriva in Sardegna col suo show dalle mille repliche. Appuntamento a Cagliari, dall’8 al 10 giugno, un one man show che si inserisce nella ricca programmazione del Teatro Massimo sotto la gestione del Cedac e di Jazz in Sardegna.
Brachetti, possiamo definirla l’ultimo dei trasformisti?
«No, perché io ho riscoperto il trasformismo teatrale nel 1978. Ai tempi ero l’unico al mondo, e neanche lo sapevo. Era dai tempi di Fregoli che era scomparsa quell’arte che io ho rispolverato. Adesso ci sono in giro sia uomini che donne che si trasformano nei talent show. A parte il fatto che mi copiano, hanno tutti un repertorio di 5 minuti. Io sono uno che è partito da 6 personaggi e sono arrivato a 450 costumi che conservo tutti in un magazzino. Sono l’unico che parla, racconta attraverso il trasformismo, che è una forma teatrale che esprime sentimento, altrimenti sarebbe solo una sterile esibizione circense».
Come fa un’arte antica, un classico senza tempo, ad avere successo nell’era digitale?
«Siamo abituati alle applicazioni che trasformano le emozioni. Ma vedere una cosa dal vivo è un’altra cosa. Sorrido quando sento che il teatro morirà: esiste da 200mila anni, da quando c’è l’uomo e non morirà mai. Il teatro è come fare l’amore: se rimaniamo uomini continueremo a farlo dal vivo, perché on line non ha senso. Il teatro è un’emozione che si vive gomito a gomito con chi ti sta a fianco, con chi ride o piange come te».
“Solo” è il suo one man show: quanti Brachetti vedremo sul palco?
«È uno spettacolo che gira l’Europa da otto anni, rodatissimo, di alto livello. Sono previste almeno 60 trasformazioni. Dalle serie tv - zio Fester, Capitan Spock, Sherlock Holmes, Wonder woman - alle favole - Biancaneve, Aladino, Frozen, Shrek -, alla musica - Pavarotti, Madonna, Michael Jackson, Elvis. E poi ombre cinesi, “sandpainting”, lotte di luci al laser. È uno spettacolo molto hi-tech, ma allo stesso tempo molto artigianale. Uno show italiano che si porta dietro le sorprese della commedia dell’arte. C’è un pensierino sotto sotto con cui la gente torna a casa: bisogna continuare a rimanere bambini ma con un piede per terra, e non due».
Quarantacinque anni di carriera, numeri impressionanti in tutto il mondo: si aspettava più riconoscenza dall’Italia?
«Mi hanno fatto cavaliere in Francia e commendatore in Italia. Ma mi aspettavo più attenzione dalla tv italiana, magari un one man show in prima serata. La tv italiana promuove molti talenti, anche abbastanza normali. Sarebbe bello desse spazio anche a chi fa cose fuori dal comune».
Negli anni ’80 fece “Al paradise” di Antonello Falqui: nella tv di oggi mancano i Falqui?
«Ai tempi c’era un perfezionismo che ora non è più possibile. Allora la tv veniva pensata come un film e costava. Dieci giorni di prove per uno show di due ore. Oggi si fanno due ore di prove per uno show di quattro».
Ha lavorato spesso con Aldo Giovanni e Giacomo. Un sodalizio insolito, il vostro.
«Siamo coetanei. Io, loro, il Mago Forest, Raoul Cremona veniamo tutti dalla stessa sub cultura anni ’80 ed è sempre bello ritrovarsi. Quando Aldo Giovanni e Giacomo sono insieme sono come tre adolescenti e io mi ritrovo a fare la maestra. Io ho un diploma magistrale ma non ho mai esercitato. Mi succede solo con loro».
La trasformazione che non ha ancora fatto?
«Fregoli sulla tomba si fece scrivere: “qui Leopoldo Fregoli compì la sua ultima trasformazione”. Quella ormai l’ha scritta lui. A me piacerebbe fare lo showteller, raccontare quello che ho vissuto. Magari a 85 anni non sarò più in grado di trasformarmi, ma di raccontare sì».
In un mondo in cui qualsiasi risposta si trova sullo smartphone c’è ancora spazio per la fantasia?
«Senza fantasia moriamo. Anche se oggi i ragazzi non sono più abituati a fantasticare. Per questo voglio diventare uno showteller, per raccontare storie».