La Nuova Sardegna

Intervista

Paolo Crepet: «Social e intelligenza artificiale, tempi moderni? No sbagliati»

di Alessandro Pirina
Paolo Crepet: «Social e intelligenza artificiale, tempi moderni? No sbagliati»

Lo scrittore e psichiatra di fama sarà l’8 maggio a Sassari con “Mordere il cielo”

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Un viaggio tra riflessioni e racconti, un invito al pubblico a guardare oltre, a riscoprire il desiderio di osare, a mordere il cielo. E “Mordere il cielo” è il titolo dello spettacolo-monologo con cui Paolo Crepet, scrittore e psichiatra di fama, arriverà l’8 maggio al Teatro Comunale di Sassari.

Dottor Crepet, perché l’invito a mordere il cielo?
«Perché oggi vale ancora di più di quando uscì il libro. Oggi è cambiato il mondo. Abbiamo davanti a noi scenari che nessuno avrebbe potuto immaginare sul futuro dell’Occidente, delle libertà, della democrazia, della intelligenza artificiale. Sono sfide pazzesche a cui noi cittadini di questa parte del pianeta non possiamo farci trovare impreparati».

Il suo libro è stato definito un inno ad andare oltre la comfort zone.
«Noi adulti dobbiamo porci la domanda su cosa vogliamo fare. La comfort zone vuole dire consegnarci a un mondo fatto da altri. Non è una questione ideologica. O ripensiamo alle nostre relazioni, al nostro mondo, oppure avremo davanti scenari inimmaginabili. Nei giorni scorsi sul Corriere della sera c’era una intervista molto interessante, ma anche molto inquietante, all’ex numero due di Open Ai, ll’ex vice di Sam Altman, che ovviamente parla solo ora perché si è dimesso. Altrimenti mica lo avrebbero fatto parlare, e già questo te la dice lunga sul tipo di libertà che c’è. Ebbene, lui ha detto che entro l’estate 2027 l’intelligenza artificiale sarà notevolmente superiore a quella umana. Ha ragione? Magari sbaglia di qualche mese, ma non credo si tratti di cretinate. Lui racconta quello per cui è stato pagato».

Secondo lei che strada abbiamo davanti?
«Lui dice due cose. Possiamo lasciare fare, ci sediamo comodi, stiamo fermi e il mondo sarà fatto da altri. Io non vorrei essere distopico, passare per l’Orwell dell’ultima ora, ma non me la sento di ignorare quanto da lui detto. L’alternativa è fare una sorta di rivoluzione, andando alla riscoperta dei valori. A partire da quelli educativi».

Che fotografia viene fuori della società di oggi?
«Dipende da quale parte di mondo guardiamo. Noi siamo pochi, siamo appena mezzo miliardo, ma nel mondo ce ne sono altri sette, sette e mezzo. Io vedo una grande immaturità, una scarsità di idee, di novità. Negli anni Cinquanta Michelangelo Antonioni venne a Costa Paradiso a girare “Deserto rosso”, un film rivoluzionario con una straordinaria Monica Vitti, che si faceva portavoce della teoria della incomunicabilità. Oggi siamo arrivati proprio a quel punto. Ognuno col proprio device, per il resto tutti muti. Viaggio spesso in treno e lo scenario è sempre lo stesso, da Bolzano a Ragusa. Un tempo vedevo la gente leggere un giornale o un libro. Oggi nessuno fa neanche più telefonate. Tutti mandano messaggi, video, filmati. Siamo davanti a un cambiamento antropologico. Non mi si dica che sono i tempi moderni, questi sono tempi sbagliati».

Come si rimedia a questa rivoluzione involutiva?
«Qualche giorno fa la Francia ha approvato una legge che vieta i telefonini fino alla terza media. Che lei sia d’accordo o meno al governo francese non gliene frega niente. Una legge contro il progresso? Uno sgambetto a Trump? Nulla di tutto questo. Ricerche su ricerche hanno stabilito che i bambini che non usano i telefoni aumentano la loro capacità di memoria, di concentrazione, di creatività. E allora: perché dobbiamo essere così perversi a non volerlo? Uno Stato non può dire a un genitore come comportarsi, sarebbe mostruoso, ma può dire a un preside cosa fare o non fare. E dunque, come Stato, se ho una idea l’approvo e la metto in pratica. Dieci anni fa parlavo di questo nel mio libro “Baciami senza rete”. Sono passato per il boomer, il vecchio che anziché stare a casa blatera. Sono passati dieci anni ma alla fine avevo ragione io».

Ha visto la serie televisiva “Adolescence”?
«Sì e mi ha fatto un effetto doppio. Non è il mio campo giudicare la serie dal punto di vista cinematografico, che comunque in questo caso parliamo di qualità eccelsa, attori bravissimi, compreso il bambino. Ma il punto è un altro. Diamo per scontato, e questa serie ne dà la certezza, che l’adolescenza inizi a 13 anni o forse è già iniziata prima. Ne siamo sicuri? Io ci andrei cauto. Quando avevo 12 anni andavo a fare acquisti con mia madre, non me ne andavo in giro per la città. Oggi purtroppo vediamo ragazzine e ragazzini ubriachi fino ad andare al pronto soccorso in coma etilico. Ebbene, questo successo planetario ha decretato che l’adolescenza inizia a 12 anni, ma su questo ho forti dubbi».

Il suo rapporto con i social?
«Ci sono quasi senza esserlo, ed è il consiglio che do a chiunque. Si può stare sui social senza perdere un minuto della propria giornata. Io non ho una opinione tranchant, per cui sono belli o sono brutti. A fare la differenza non è lo strumento in quanto tale, ma solo quello che cerchiamo noi».

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